Il concorsone di Mario Sconcerti

Questa è una storia vera anche se quasi inverosimile, che mi costò per molto tempo l’amicizia di Paolo Mantovani.

Credo riassuma al meglio lo spirito del Genoano.

Era l’estate del ’92, Genova era una delle città padrone del calcio. La Samp, campione d’Italia,era arrivata sesta e il Genoa di Bagnoli solo quattordicesimo, ma sembravano ancora solo incidenti, non si pensava a un ridimensionamento netto come poi avvenne.

La Samp aveva appena perso la finale di Coppa dei Campioni, il Genoa era andato avanti bene in coppa Uefa, la città era molto presa dal calcio e dalla sua rivalità. Io ero da pochi mesi direttore del Secolo. Andavamo molto bene, eravamo vicini ai record di vendite, era un estate bellissima, di quelle in cui sembra che il mondo sia nato e cresciuto in Riviera.

Mi sembrò il tempo giusto per un gioco e un sentimento. Mettemmo una cartolina nel giornale e invitammo la gente a scrivere se era genoana o sampdoriana. Un vero piccolo censimento. La fase finale avrebbe dovuto consentire una piccola mappa, rione per rione, forse strada per strada, del tifo in città.

Partimmo con il concorso i primi giorni di agosto. Raccomandai il gioco a Giulio Vignolo, allora leggendario capo dello sport, e me ne andai anch’io in vacanza. Ogni giorno chiedevo quante cartoline erano arrivate e Vignolo glissava.

Mi diceva “tante” per farmi contento, io chiedevo quante e lui diceva una cinquantina cioè niente. E lui aggiungeva che i genovesi bisogna conoscerli, non amano questo genere di cose, non amano contarsi così sommariamente. Io scuotevo la testa è raccomandavo di mettere in evidenza la cartolina, di parlare in prima pagina del concorso, perché l’esperienza mi diceva che doveva essere un successo. Che sarebbe accaduto qualcosa di diverso.

Giorno dopo giorno le cartoline aumentavano, dalle decine alle centinaia, poi alle migliaia. E la Sampdoria era sempre in testa, fin dal primo giorno. Avevamo deciso di far terminare il concorso la vigilia del campionato, il quattro settembre.

Verso Ferragosto il gioco era già un successo. Erano arrivate circa trentamila cartoline fra lo stupore del vecchio Vignolo che continuava a non amare il gioco forse perché il suo Genoa era nettamente sotto.

Andando avanti il gioco diventò quasi crudele. La Samp prendeva sempre di più il largo, erano circa ottomila i voti di distacco fra le due tifoserie. Rapidamente arrivammo così alla vigilia del campionato. Ricordo che era un sabato senza una nuvola, forse l’ultima domenica d’estate. Due settimane dopo sarebbe arrivata l’alluvione.

Stavo fumando una sigaretta sul porticciolo di Nervi quando squillo’ il telefono di casa. Alzai il ricevitore, era il mio vice, Gaetano Rizzuto. Mi dice che sta accadendo qualcosa di straordinario, tutto il traffico è bloccato perché sotto il Secolo, in via Varese davanti a Brignole e poi via via da tutte le strade in torno, si era allungato un corteo infinito di genoani. Erano dovunque e continuavano ad arrivare.

Chilometri e chilometri di genoani. Parlavano tra loro, avevano in mano la cartolina del concorso e si godevano la vendetta. Erano migliaia e migliaia, solo genoani, una distesa indescrivibile di tifosi ordinata e decisa a svolgere il proprio “dovere” : votare per il Genoa. Presi la macchina, mi precipitai. La coda cominciava da corso Europa.

Sinceramente mi commossi. Non avevo mai fatto niente in vita mia che avesse dato un riscontro così tangibile, così evidente. Alla fine della giornata un esercito di impiegati e giornalisti finì finalmente il conteggio. Erano arrivate l’ultimo giorno più di venticinquemila tagliandi per il Genoa.

Perfidamente, con un passa parola che solo le tifoserie possono avere, i genoani avevano lasciato sempre in testa i sampdoriani ma si erano tenuti da parte i tagliandi. Avevano risparmiato sul francobollo e tutti insieme avevano scelto di portarlo l’ultimo giorno. Togliendo la vittoria dai denti della Samp.

A questo punto il problema era un altro: come dirlo ai sampdoriani, già sicuri di aver vinto. Mettemmo tutti i tagliandi in una stanza, erano centosessantamila, una cifra incredibile. Finché fui direttore del Secolo, quella stanza rimase piena di quei tagliandi a disposizione di chi volesse controllare. I sampdoriani non la presero bene. Ci accusarono di aver manipolato il gioco è di essere dalla parte dei genoani. Il presidente Mantovani mi mandò un fax su carta intestata personale in cui vietava ai miei giornalisti di andare a Bogliasco. Risposi come Garibaldi: Obbedisco. Allora mi mandò una seconda lettera dicendomi che “forse non avevo capito”, i miei giornalisti non dovevano più farsi vedere. Di nuovo lo delusi ubbidendo.

Due settimane dopo mi chiese un appuntamento, ci vedemmo da lui in via Venti. Mi fece una confessione straordinaria. Alla fine di agosto aveva avuto un infarto. Mi disse che mentre era all’ospedale pregava Dio di farlo vivere solo perché doveva farla pagare a me e al Secolo.

Chi conosceva Paolo Mantovani sa che era esattamente così. Non voleva gare fra tifosi, erano pericolose. Risposi che non poteva prendersi lui la responsabilità di cosa fosse pericoloso per la gente.

Era stato un gioco, avevano partecipato in centosessantamila, tutte le famiglie della città, e non era successo niente. E allora? Ci demmo la mano e diventammo amici sinceri. Di più, due persone che impararono a stimarsi. Ma il Genoa aveva vinto il suo campionato. Con metodo e perfidia. Soprattutto rabbia.

Il riassunto di quello che ancora oggi è.

Buona fortuna.

Mario Sconcerti (12 luglio 2005, Il Secolo XIX)

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